domenica 22 novembre 2009

il Mito in Cesare Pavese




§
§§


IL MITO IN PAVESE

gennaro di jacovo



A Louis Eel e Niki Snail
« Prima di nascere non sapevamo nulla della vita, eppure essa è stata bella ...  così anche la morte non deve farci paura ... essa non ci deluderà ... » (K. Kerenyi, Miti e Misteri, Universale Scientifica Boringhieri, pag. 18, citazione da Tagore).



CENNI INTRODOTTIVI

§
§§ §

§
§§ § ... Sull'opera letteraria di Cesare Pavese, un primo affrettato giudizio di « realismo » teneva conto più del suo aspetto esteriore (accumulo dei particolari, lingua scarna, uso di ter¬mini dialettali, abolizione del descrittivismo ornativo e sentimentale, rappresentazione secca ed evidenziata dei particolari) che non della sostanza, riducibile alla no¬ta fondamentale della incapacità di vivere. Ora la critica è concorde nel riconoscere in essa una vena di decadentismo, lucido e sofferto fino al cerebralismo, fino ad un’analisi dolorosa di una reaUà mai completamente posseduta.
Lo sforzo esistenziale di Pavese consiste proprio nella volontà di esaurire in sé il decadentismo e di dare alle sue sofferte esperienze una voce realistica.
La sua opera di poeta e di narratore, quindi, ci si presenta come un intreccio di realismo e di decadentismo.
Questa caratteristica appare chiara ove si consideri la natura della sua poetica del : ”vedere sempre la seconda volta ” : ossia la scoperta dell’infanzia come prima esperienza del mondo e come formazione dei ”miti” , dei simboli che vivranno poi per sempre nella coscienza. Il « vedere la seconda volta » consiste nel riscoprire e nel dare chiarezza razionale di significato ai miti dell’infanzia.

Questa chiarificazione e razionalizzazione del mito è fatta alla luce delle esperienze fondamentali dell’adulto. Del tutto illusoria risulta la volontà di impostare liberamente la propria esisten-zia: l’uomo è condizionato dal suo primo vedere infantile.

Per Pavese il contrasto infanzia-maturi¬tà, radicato in ogni uomo, si riflette sul piano storico, geografico e sociale come contrasto infanzia-età matura, età primi-tiva-civiltà,–campagna-città. Lo scrittore, razionalmente allineato sui secondi termi-ai del contrailo, è però seiìlinien talmente legato ai primi. Nella vita pratica soffre drammaticamente questo contrasto mai risolto. L’attivismo sociale, letterario o politico

che si impone non gli darà mai la sicurez¬za di aver superato il mito, il sogno, l’ado¬lescenza: si sente uno sradicato (deraciné).

LE OPERE —

L’esordio di Pavese avviene con la pubblicazione, ad opera di Soia-ria, delle poesie-racconto Lavorare stanca (1936), in cui è contenuta tutta la tematica pavesiana. E’ evidente la concezione della realtà in chiave simbolica.
La produzione poetica di Pavese faticò ad essere intesa, secondo Anceschi, per¬ché nata « nell’assoluto rifiuto della situa¬zione, delle disposizioni e delle ricerche del movimento poetico italiano ».

Nota Carlo Bo, concordando, che « se le poesie di Pavese caddero nel silenzio, fu perché l’attenzione era tutta rivolta al¬trove e anche diversi erano i bisogni ».
Il rapporto adolescenza-maturità, l’eva-sione, l’attaccamento alla propria terra, il ritorno alle origini sono i temi tipicamen¬te pavesiani, espressi nella poesia di « La¬vorare stanca » in versi e periodi che ab¬bondano di costruzioni paratattiche. Si forma una disposizione linguistica lineare tale da soddisfare l’esigenza di un verso lungo, prosastico e narrativo; lo stesso al-ternarsi di asindeto e polisindeto crea una zona di parlato che non verrà dimenticata in tutto il libro, mentre l’uso del presente e della terza persona costruisce un am¬biente di fondo quasi scenico, come se il poeta guardasse « dalla finestra », in un atteggiamento di contemplazione, il mon-do e la vita. Il motivo della finestra è tra i più comuni della poetica pavesiana: è in fondo l’essenziale atteggiamento dello scrittore di fronte alla vita, ed in questo dimostra la sua impossibilità a coglierla direttamente.

« Lavorare stanca », secondo- F. Flora (Storia della Letteratura Italiana, Voi. V, II Secondo Ottocento e il Novecento, Mon-dadori, Milano 1972, pp, 756-7), mostra nel-ia ricerca prosodica e metrica un bisogno di canto più sincero, di là dalla assuefazio¬ne alle musiche tradizionali.

Pavese vedeva nei Mari del Sud rispecchiarsi i temi fondamentali delle sue …
poesie: « se figura c’è nelle mie poesie, è la figura dello scappato di casa che ritorna con gioia al paesello, dopo averne passate di ogni colore (…) contento di sentirsi so¬lo e disimpegnato, pronto ogni mattina a ricominciare » (Diario, pag. 26, 10 Novem¬bre 1935).

Lo « scappato », la collina, la strada, la finestra, questi i temi che ritroveremo nelle opere seguenti.

IL MITO —

« Feria d’Agosto » (1946) svi¬luppa alcuni temi centrali fondamentali della poetica di Pavese. In « Vigna » il poeta tratta del mito, che definisce « l’ac¬cadere una volta per tutte di un fatto mi¬tico che esprime un evento ciclico del cosmo ».

« Questo accadere — continua Pavese (II Mestiere di Vivere) — è analogo al¬l’espressione che si da, in arte, a una molte volte ripetuta esperienza di pae¬saggio, gesto, evento. Quante volte hai osservato la collina di Quarti e Coniolo prima di esprimerla? » (3 Agosto 1946).

Scrive anche, a proposito del mito: « Noi abbiamo orrore di tutto ciò che è incom¬posto, eteroclito, accidentale, e cerchiamo di limitarci — anche materialmente —, di darci una cornice, d’insistere su una con¬clusa presenza. Siamo convinti che una grande rivelazione può uscire soltanto dal¬la testarda insistenza su una stessa diffi¬coltà… Sappiamo che il più sicuro — e il più rapido — modo di stupirci, è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento quest’oggetto ci sembrerà — miracoloso — di non averlo mai visto ».

Cioè: per accostarsi al mito non è suffi¬ciente uno sguardo sommario; è necessa¬ria” una contemplazione insistita, ripetuta: è necessario un ripetersi continuo di espe¬rienze del mito, sino a che esso venga col¬to nella sua sostanza, sino a che esso trovi un’espressione che, come il fatto mitico, accade una volta per tutte.
Esistono due tipi di miti: quelli nati nell’infanzia dell’umanità (per la nostra civiltà sono quelli nati in Grecia) e quelli personali, nati nell’infanzia di ciascun uo¬mo (V. S. Gondola, Pavese nei « Dialoghi con Leucò », su Alla Bottega n. 4, Luglio-Agosto 1975).

Secondo Pavese « II concepire mitico dell’infanzia è insomma un sollevare alla sfera di eventi mitici ed assoluti le suc¬cessive rivelazioni delle cose, per cui que¬ste vivranno nella coscienza come schemi normativi dell’immaginazione affettiva » (Feria d’Agosto, Del mito, del simbolo e d’altro, Oscar Mondadori, Agosto 1971, pag. 190).
Quindi ogni uomo quando conosce ra-zionalmente il mondo non si trova di fron¬te ad una realtà ignota da indagare, bensì ad una realtà assunta nel suo subconscio come un mito, e quindi già vista, per cui conoscere vuoi dire « vedere per la secon¬da volta ». La « prima volta » non c’è stata, infatti, conoscenza.

« La vita di ogni artista — conclude nel Diario — e di ogni uomo è come quella dei popoli un incessante sforzo per ridurre a chiarezza i suoi miti ».

I miti, dunque, sono per Pavese la nostra matrice dinamica, « II fuoco vitale (…) della vita intcriore ».

IL DRAMMA ESISTENZIALE —

II dramma insanabile del poeta consiste nel voler razionalizzare un’esistenza con¬dizionata da uno stampo indelebile, la¬sciato dalla « prima visione delle cose » allo stato inconscio. È ii dramma della impossibile libertà dell’uomo. Egli si sen¬te schiavo dei limiti segnati dalla prima visione, quella mitica, che gli da, rive-landoglisi, un senso di non-libertà, di con¬dizionamento, di colpa: è il « destino ». Nei dialoghi con Leucò (1947) egli ci da chiarimenti esemplificativi circa il signi¬ficato dei miti antichi, che non devono es¬sere considerati favole d’un tempo remo¬to, ma simboli sempre presenti ed ope¬ranti a livello di coscienza individuale di tutti gli uomini.
II « Mestiere di Vivere » (il suo diario
pubblicato postumo nel ‘52) e l’« Epistolario » (1966) sono le testimonianze auten-
tiche del suo assiduo tormento esistenziale.

Ricondurre Pavese ad una matrice di scrittore realistico, « impegnato » nella realtà politica e sociale del suo tempo, vorrebbe dire forzarne l’interpretazione. Sotto un’apparenza formalmente verista o realista si nota il suo continuo interven¬to nelle vicende, a fianco dei personaggi, con una partecipazione costante alla vita ed alle immagini che si svolgono nei suoi romanzi/racconti.
Ha osservato a questo proposito il Flo¬ra che Pavese manifesta forti qualità spe¬culative, come si rileva specialmente nei « Dialoghi con Leucò, nel « Diario » (« II Mestiere di Vivere ») e come traspare dai racconti stessi. I suoi personaggi — con¬tinua il Flora — sono rappresentati nel loro stesso formarsi e mai definiti per un’ intrusione interna dell’autore. Questo sa ad essi infondere la sostanza della pro¬pria riflessione, come una verità natura¬le del vivere, cogliendola quale sapienza nativa e bene ancestrale, sorgivo, comune a tutti gli uomini.
§
§§ §
Dai suoi libri appare chiaro il rovello continuo sulle ragioni stesse della vita e della morte, del sangue e del dolore. Que¬sta intensità spiega il suo assiduo uso del monologo e la necessità di un linguaggio dialettale in certe espressioni necessarie per rappresentare « un mondo verbale nella sua vibrazione originaria ».

Poetico — conclude il Flora — è lo stile dello scrittore, per « una virtù tonale tutta sua in cui si esprime il suo angosciato senso delle cose, e la volontà di salvarsi in espe-rienze di vita: amore, azione sociale, me¬ditazione dei “miti”, arte-poesia ».

In Pa¬vese quindi il primo piano è quello colle¬gato alle ragioni stesse della sua esisten¬za: egli scrive per portare a chiarificazio¬ne i suoi miti. Profeticamente egli sentiva che illuminare tutta la realtà mitica del nostro io avrebbe portato, alla fine, alla impossibilità di scrivere: è il fondo della sua tragedia. « Verrà il giorno in cui avremo portato alla luce tutto il nostro «mi¬stero e allora non sapremo più scrivere. Cioè inventare uno stile ». Scrivere, quindi, per Pavese è vivere. Lo stile, è la realtà di chi racconta: è l’unico personag¬gio insostituibile.
Nel « Carcere », lo scrittore rievoca il periodo in cui fu confinato a Brancaleone Calabro, per ragioni politiche. Stefano, il protagonista del racconto, pur sentendo¬si oppresso dalla solitudine non riesce ad accettare rapporti aperti di amicizia, di collaborazione e di amore, restando chiu-.so nel vagheggiamento di una realtà che sente di non poter possedere, impersona¬ta da Concia, la donna-capra al limite tra l’umano e il bestiale, dal momento che è convinto che il destino è solitudine.

Non un accenno ai motivi politici del confino, nessuna reazione sociale sull’am¬biente meridionale, che aveva diversa¬mente influenzato l’opera letteraria con¬temporanea di Carlo Levi. Il racconto è del 1939, e segna un momento importante nella tecnica narrativa dello scrittore, che più tardi porterà questo spunto all’estre¬mo risultato.

Tempo, o ritmo, narrativo e dialogo so¬no i due termini entro cui oscilla la ricer¬ca pavesiana, ed ambedue corrispondono a due momenti essenziali della poetica

dello scrittore. Mentre il ritmo narrativo corrisponde al tema centrale del ‘mito’ come istante irripetibile che scandisce la inesorabilità del destino individuale, il dialogo corrisponde al momento dell’im¬pegno sociale e umano: alla volontà di comunicare con gli altri.

Così « Paesi tuoi » (1941) sarà l’esaspe¬razione, o l’estrema possibilità della tecni¬ca del dialogo, e il « Carcere » quella del ritmo.
La tecnica dialogica troverà soltanto nel « Compagno » (1947) la sua ultima possibilità espressiva.

Nel « Compagno », Pablo è un uomo che soffre di solitudine, di noia esisten¬ziale, e crede di trovare uno sbocco posi¬tivo nella presa di coscienza politica. Si pone come modello Amelio, il marxista sicuro di sé, e riesce a risolvere il proble-ma della solitudine e a dare un significa¬to alla vita. Ma non risolve il suo proble¬ma esistenziale di fondo. Se per Stefano la politica è stata causa dell’isolamento materiale, per Pablo è occasione per vin¬cere la noia.

Ma tutto questo è solo appa¬renza: Stefano porta dentro di sé il suo carcere: nella impossibilità ad amare, a partecipare. Pablo si getta nell’impegno sociale, ma è destinato al fallimento, per¬ché non ha prima risolto le sue contrad¬dizioni personali.

Nella « Casa in Collina » (1947-48), Cor¬rado assomma in sé le posizioni di Ste¬fano e Pablo. Questo giovane intellettua¬le, vissuto sempre in un mondo tutto suo, è costretto dall’orrore della guerra a pren-dere posizione, ad impegnarsi, a prende¬re coscienza della sua natura di uomo e di un cittadino, a « storicizzarsi » attra¬verso la partecipazione. Ma queste espe¬rienze non lo guariscono dal solipsismo, non gli riempiono l’esistenza, non lo al¬lontanano da una solitudine popolata di miti. Qui ci troviamo di fronte all’ultima, più pregnante antinomia pavesiana: la storia ed il mito. La stessa opposizione che si ritrova nell’altra opera maggiore di Pavese: « La Luna e i falò ».

Nei due romanzi egli da una duplice risposta alla sua presa di contatto con il mondo e con la realtà interiore. La con¬clusione è che la soluzione mitica delle cose (la Luna e i falò) e del mondo è al-trettanto valida della soluzione oggettiva.

L’impossibilità della scelta ed il dramma che ne scaturisce si pongono come pre¬supposto e insieme conclusione della tor¬mentata vicenda dell’arte pavesiana.

… Il romanzo sembra, per il momento, dissipare e risolvere le paure, le ansie di un imo così tormentato. Ma nel 1949 pubblica il trittico formato da tre racconti: La bella estate », « II diavolo sulle colline» e « Tra donne sole ». A proposito di questi tre romanzi, Augusto Monti rimprovererà a Pavese «il suo gusto furioso per la distruzione, la sua cupa ossessione di morte ».

Pavese risponde di aver inteso rappresentare la ribellione dei giovani alla corruzione del mondo borghese che li circonda, per quanto riguarda il romanzo « II diavolo sulle colline ».
Il motivo profondo che lega il romanzo

però, quello più inquietante della «malattia»,già presente in Mann. Il rapporto
dei personaggi con la natura è viziato dalla concezione panica della terra come qualcosa di selvaggio.

« Tra donne sole » presenta il motivo della morte richiesta da una società che ha perso il senso e il valore del mito.

« La bella estate » da il nome all’insie¬me dei tre romanzi accomunati nel senso della stagione. È il romanzo della perdita dell’innocenza, della conquista, nella città, della maturità e della solitudine. Anche « La spiaggia » (1941) presenta un’analisi della società borghese, con la a apparente gioia di vivere e mancanza di problemi.

« Paesi tuoi » (1941) apparve quando la scoperta del Verga e del realismo, assieme alla lezione degli americani, era stata assorbita dagli scrittori più attenti e meno compromessi col fascismo. Il romanzo preso come una trasposizione di mo-delli americani, o come una tragedia rusticana. Pavese stesso non si oppose a questa interpretazione. La caratteristica dell’opera, secondo Barberi Squarotti, è quella di presentarci in termini simbolici una realtà che è « altra » da quella natulistica. È da tener presente che in questo periodo Pavese stava effettuando stu¬di etnologia, attraverso i testi di Frazer, che precedettero quelli riguardanti la psicologia di Jung e di Freud, a cui egli accostò in seguito. Scopre in questo periodo che « l’uva, il grano, la mietitura, il covone erano stati drammi, e parlarne in parole era sfiorare sensi profondi in cui il sangue, gli animali, il passato eterno, l’inconscio sì agitavano ».

L’opera presenta però ancora incertezze irrisolte su1 piano stilistico (rapporto con gli amecani) e su quello mistico-simbolico.

L’azione del libro fu assai efficace presso gli intellettuali: apparso negli anni più tremendi del fascismo, era un libro che in¬dicava una scelta ed una coerente propo¬sta di rinnovamento letterario che parti¬va assai sintomaticamente dal linguaggio.

Ma il « neorealismo » di Pavese non si e-sauriva nel naturalismo, perché ricerca¬va, anche se rozzamente, una verità più complessa ed una realtà meno angusta: quella del mito interpretato nella sua complessità simbolica. Per lui scoprire il .mondo americano del decennio 1930-40 significa trovare le radici della propria arte e della propria coscienza.

Quel mondo, infatti, all’attuazione di un ideale de-mocratico associava l’idea di una lettera¬tura perfettamente intonata alla realtà sociale e storica contemporanea. Per tut¬ta la generazione del Pavese, del resto, si può parlare di un « mito americano ».

« Questa America — scriveva Pintor in “II sangue d’Europa », pag. 219 — non ha bisogno di noi, è la terra a cui si ten¬de con la stessa speranza dei primi emi¬granti e di chiunque sia deciso a difen¬dere a prezzo di fatica e di errori la di¬gnità della condizione umana ». E Pave¬se stesso definiva quel paese che proprio allora l’aristocratica cultura europea an¬dava scoprendo: « … il gigantesco teatro dove con maggior franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti ». Proprio in quell’anno (1941) Moravia pubblica « La mascherata », una satira del regi¬me, subito sequestrata, e Vittorini com¬pleta la sua antologia americana, intito¬lata appunto Americana, immediatamen¬te sequestrata e pubblicata l’anno seguen¬te senza note e commenti.

Scrivendo appunto a Vittorini, Pavese ribadisce come, secondo lui, « risulta che tutto il secolo e mezzo americano vi è ri¬dotto all’evidenza essenziale di un mito da noi tutti vissuto e che tu (Vittorini) ci racconti » (Lettere, Voi. I, pag. 634).
Dal mito americano, attraverso Joice, Mann, Proust, Freud e Jung, Pavese giun¬gerà alla elaborazione della propria poe¬tica del mito. La nuova narrativa realisti¬ca — secondo G.B. Maschio (Panorama letterario del Novecento, Paravia, Torino 1971) — comincia nel 1929-30, quando Corrado Alvaro pubblica « Gente di A-spromonte » e Alberto Moravia il roman¬zo « Gli indifferenti ». Contemporanea¬mente Vittorini in una lettera aperta al¬la Fiera Letteraria di G.B. Angioletti ne¬ga ogni validità all’autarchia cultura italiana, giudicando inconsistente … dell’arte, ogni opera di narrativa comparsa dopo il 1923 (La coscienza di Zeno, di Svevo) e proclamando unici maestri gli scrittori stranieri.

Nel 1931 Pavese pubblica i suoi « Saggi di Critica » sulla letteratura americana. I due scrittori furono quindi i portatori di un rinnovamento sostanziale in senso realistico della letteratura italiana, rifiutandosi di accogliere l’integrazione nella letteratura ufficiale.

Accogliendo gli insegnamenti della narrativa americana, vollero anche una letteratura più impe¬gnata sul piano politico e sociale. La loro tenace ricerca di un nuovo linguaggio e di un sostanziale rinnovamento della tematica trovò i suoi limiti nella loro mancanza di una certezza ideologica. Ciò n parte l’uso del simbolo, il ricorso ad una dimensione mitica del reale, mediati dall’analisi attenta dei messaggi culturali e letterarì stranieri, come il surrealismo di Kafka, l’intimismo memoriale di Prroust e Joyce, la psicoanalisi di Freud, l’esistenzialismo di Sartre, il sessualismo di Lawrence e, fattore comune,
il cronachismo americano di Steinbeck, Hemingway, Faulkner, Caldwell e Saroyan.

Era la risposta di Vittorini e Pavese alla “prosa d’arte” dei Rondisti, al « realismo » di Bontempelli, al « frammentismo’’ ¬ di Soffici, alle polemiche letterarie di Stapaese e Stracittà (Malaparte e Bontempelli). O, in un certo senso — si pensi all’esigenza di sprovincializzazione della cultura, propugnata da Bontempelli in « ‘900 », prima, e, dopo la rottura con Malaparte, in Stracittà, appoggiata da Solaria — poteva rappresentare una risposta chiaramente organizzata alle confuse e contraddittorie proposte della letteratura del
« centennio nero ».

LA CHIARIFICAZIONE DEL MITO —

La luna e i falò » (1950) rappresenta il li arrivo di Pavese uomo e scrittore. Nel romanzo sono sviluppati tutti i temi a lui cari: il mito e la ricerca della INFANZIA perduta, l’amore per le colline della Langa, l’intrusione dei borghesi nel mondo delle colline, il tema politico (l’amaro giudizio di Nuto sul clericalismo trionfante ed il fallimento delle speranze nate con la Resistenza), il tema della solitudine, l’America e il mare, il motivo della fuga e del ritorno improvviso e quello del dialogo fra ragazzo e adulto (Anguilla e Cinto).

11 romanzo esprime la raggiunta ma¬turità e la chiarificazione dei miti. Pavese porta alla luce tutto il suo mistero. Da questo momento, non gli sarà più possi¬bile scrivere. Scrivere è, infatti, raziona-lizzare e chiarificare i miti, « inventare uno stile », ove per « stile » s’intende la realtà di chi racconta.
E nel suo raccon¬tare, Cesare — Anguilla è l’unico e inso¬stituibile personaggio.

Per Nuto (Pinolo Scaglione, il suo ami¬co prediletto, anche lui nato a S. Stefano Belbo) il raggiungimento della maturità è positivamente inteso, mentre per Pave¬se vorrà dire la liquidazione delle spinte inconscie, lo svuotamento esistenziale, la definitiva privazione dei miti, delle illu¬sioni vitali, e cioè, in ultima analisi, la disperazione, la solitudine totale, il fal-limento dell’esistenza.

Nella vicenda lo scrittore pensa di ri¬trovare le radici del proprio personaggio e del suo parlato, e con esse la « voce » che lo salvasse dal « male oscuro » che ormai lo tallonava da presso. Il risultato artistico è dei più felici. Per lui è il suc¬cesso mondano (Premio Strega 1950).

Non ebbe successo, invece, l’azione te¬rapeutica del libro, che anzi accentuò la febbre di autodistruzione dello scrittore nei brevi mesi che precedettero la mor¬te volontaria.

In questi mesi Pavese do¬vette sentirsi come un « fucile sparato », una sensazione che viene così descritta nel Diario: « Aver scritto qualcosa che ti lascia ancora scosso e riarso, vuo¬tato di tutto te stesso, dove non solo hai scaricato tutto quello che sai di te stesso, ma quello che sospetti e supponi, e i sussulti, i fantasmi, l’inconscio — averlo fat¬to con una lunga fatica e tensione, con cautela di giorni e tremori e repentine scoperte e fallimenti e irrigidirsi di tut¬ta la vita su quel punto — accorgersi che tutto questo è come nulla se un segno umano, una parola, una presenza non lo accoglie, lo scalda — e morir di freddo — parlare al deserto — essere solo notte e giorno come un morto ». (Il « Mestiere di Vivere », 27 Giugno 1946, Einaudi, To¬rino 1974, pag. 289-90).

« La Luna e i Falò » è l’insieme” di tutti i tentativi fatti dallo scrittore per la chia¬rificazione mitica della sua esistenza, il riassunto del suo cammino verso la con¬sapevole razionalità, raggiunta con il prez¬zo amaro e per lui intollerabile della li¬quidazione dell’età mitica.

STRUTTURA DEL ROMANZO —


Il romanzo è strutturato in tre tempi:

1) Anguilla (Pavese) torna dall’America, che appare demitizzata,
alla ricerca del paese-mito, cioè del paese natale come lo
conserva da quando lo aveva visto per a prima volta, da ragazzo.
Sente col paese, con la terra, un misterioso legame vi¬
tale. È andato in America (il mito della
razionalità, della « città ») sempre sognando di poter tornare
nel paese natale. L Aimerica e il paese sono i due poli della vicenda esistenziale del protagonista (ragione - mito; città -
campagna; maturità - adolescenza; America - paese nativo).

Ma una volta tornato, vede come tutto, pur conservando qualcosa
dell’antica forma, è irrimediabilmente « diverso », estraneo.

Le cose sono le stesse, eppure hanno qualcosa di ostile e di sconosciuto.
La contrapposizione passato - presente, rappresentativa del
rapporto uomo-ragazzo, ragione-mito, è data simbolicamente dai
discorsi di Anguilla e di Cinto.

2) Anguilla rivive il passato rivisitando
luoghi che lo hanno visto bambino: vede per la seconda volta una realtà
che ha gà precedentemente provocato in lui il
cimarsi dei miti, e che ora appare diverso e ostile, incomprensibìle proprio a causa di quei miti che si frappongono come un
diaframma ed un ostacolo, finché
non siano chiariti e razionalizzati.

3) Anguilla scopre il deserto e l’America anche in paese.

È la parte drammatica
del romanzo. Il crollo delle illusioni segna
la conquista della maturità, ma il prezzo
è troppo alto: la distruzione dei miti segna
il passaggio alla razionalità, la fine
del mondo dell’infanzia, che Pavese aveva caricato dei significati più profondi.

Lì erano le sue radici di uomo e di poeta.
La conquista della razionalità segna la ‘fine’ di questo mondo,
… dell’unico mondo che veramente amasse.

Ormai gli sarà impossibile scrivere: non ha più nulla da chiarificare.

… Ormai gli sarà impossibile vivere, perché ha distrutto irrimediabil¬mente il suo unico mondo possibile.

Questa identificazione ‘vivere-scrivere’ i chiara nel punto stesso in cui scriveva la sua ultima frase: « Non parole. Un ge¬sto Non scriverò più » (18 Agosto 1950).

IL MITO E LA RAGIONE — POETICA dei DIALOGHI CON LEUCO’ » —

Pavese, tornato da Roma nel Settembre de! ‘43. non aveva trovato più a Torino né la casa di Via Lamarmora, distrutta dai bombardamenti, né gli amici torinesi, che lo avevano aiutato a liberarsi dalla sua solitudine, e che la guerra aveva ora disperso.

Costretto ad abbandonare la cit¬tà, non entrò nelle file partigiane, ma si rifugiò in un’oasi di pace e di meditazio¬ne a Serralunga, sotto il santuario di Crea. Là nacquero le sue riflessioni sul mito, là egli diede veste teorica a quel senso del mito che sempre aveva costi¬tuito il nucleo della sua concezione sul¬la vita. Mettendo in atto queste medita¬zioni sul mito, scriverà l’opera a Roma nel 1946, tre anni dopo.

Nello stesso anno pubblica « Feria d’A¬gosto », che contiene interessanti sviluppi della sua teoria mitica, e collabora inten¬samente al quotidiano del P.C.I., l’Unità.
Si era iscritto al partito nel 45, dopo aver conosciuto Davide Lajolo e Italo Calvino, sperando di trovare finalmente un aggancio con i problemi reali della vita politica e sociale.

Il libro fu pubblicato nel 1947. Pavese lo aveva ultimato a Torino, accompa¬gnando la composizione dei dialoghi con annotazioni sul suo Diario.

Qui appunto scrive che « Paesi tuoi e Dialoghi con Leucò nascono dal vagheggiamento del selvaggio ».

« In genere — scrive sul Diario — devi tener presente che negli anni 43-44-45 tu sei rinato nell’isolamento e nella medita¬zione (di fatto, hai teorizzato e vissuto allora l’infanzia). Così si spiega la stagio¬ne aperta 46-47 con Leucò e II Compagno, e poi con il Gallo e poi l’Estate e poi La Luna e i falò ed ecc. ed ecc. ». E, riferen¬dosi al periodo passato a Serralunga, scri¬ve: « Ti eri abbandonato. Ti eri spogliato dall’armatura.
Eri ragazzo ».

MITO — RECUPERO DELL’INFAN¬ZIA — SENSO DEL SELVAGGIO —

Per Pavese il mito è « un linguaggio, un mez¬zo espressivo — cioè… un vivaio di sim¬boli cui appartiene — come a tutti i lin¬guaggi — una particolare sostanza di si¬gnificati che null’altro potrebbe rendere » (dal Diario). Precisa poi di essersi servi¬to dei miti ellenici « data la perdonabile voga popolare di questi miti, la loro im¬mediata e tradizionale accettabilità ».
« II mito greco — egli scrive sempre sul Diario, il 28 Dicembre 1947 — insegna che si combatte sempre contro una parte di sé ».
§
§§ §
CONTENUTO DEI DIALOGHI CON LEUCO ». —

Pavese accenna al succedersi all’Età Titanica, aurea e mostruosa, caratterizzata dall’indifferenziazione tra uomini, mostri e dèi, il succedersi dell’età della distinzione tra l’Ade e l’Olimpo.

Precisa però che egli considera la realtà sem¬pre Titanica, cioè come Caos di divino e umano.

Precisa anche in cosa si differenziano dio e uomo.

Gli dèi sono privi di sentimento, fanno le cose secondo il Fato. Sono distaccati e agiscono magicamente, senza sofferen¬za. Invidiano l’uomo che, anche se soffre e agisce con dolore desiderando il divino, ha però la capacità di dare nomi alle cose, di creare qualcosa di nuovo così che gli dèi aiutano l’uomo per la loro nostalgia del mondo titanico.

Il tipico contrasto pavesiano tra l’ado¬lescenza e la maturità, tra desiderio di raggiungere la maturità e l’incapacità di abbandonare l’adolescenza, nei « Dialo¬ghi » viene proiettato su un piano storico, trasposto nella dialettica tra vecchio mon¬do titànico, fatto di Caos, di indistinzio¬ne fra umano e reale, di istinto e libertà, e il nuovo mondo degli dèi, fatto di distin-?juni, di leggi, di razionalità.

Dèi buoni
I « Dialoghi » sono perciò la trasposi¬zione sul piano della storia dell’umanità della mitologia propria di Pavese, il tenta¬tivo di attribuirle valore universale. In es¬si pregnanza realistica personale e abban¬dono al mito classico come simbolo di una realtà universale, si trovano in uno strutturale stato di equilibrio, al quale l’armoniosità del testo da un fascino tut¬to particolare. Egli evita così di sfuggire al reale, recuperandolo ad un livello uni¬versale, cosmico, proponendo la solida¬rietà umana, « l’aprirsi dell’uomo ai suoi simili… la sconfitta dell’inumana e selvag¬gia solitudine ». I « Dialoghi » rappresen¬tano l’elaborazione di un umanesimo che, innestandosi sulla terrificante esperienza della seconda guerra mondiale e del fa¬scismo, vuole offrire all’uomo qualcosa in cui ancora credere.
§
§§ § L’opera testimonia pure — accanto a questa affermazione di maturità — la per¬manenza in Pavese del fascino per ciò che è istinto, solitudine, misticismo pani¬co, così da proporre due opposte istan¬ze, contraddittorie ed equilibranti: — il primato dell’umano: il dover essere; -— il primato del selvaggio: l’essere.
Egli sente il contrasto fra questi poli opposti, e se da un lato, proprio questo contrasto innesta nell’opera un’inquie¬tante e stimolante tensione dialettica, im¬pedendo che diventi « opera staccata e

rarefatta di un artista chiuso nella sua torre d’avorio (Michele Tondo, Itinerario di C. Pavese, 1971, pag. 143); dall’altro, la fa incapace di « dare una risposta » si¬cura e definitiva al « costante interrogati¬vo sulla vita » (D. Lajolo, II vizio assur¬do, 1972, pag. 291).

Dei 27 dialoghetti, il poeta ha lasciato vari schemi ordinativi e indicazioni te matiche.

Questo che segue è uno schema dattiloscritto del 12 Settembre 1946:



Mondo titanico dèi / I ciechi
nequize divine

La nube
La…Chimera
Le cavalle
II fiore
La belva
Schiuma d’onda

§§
§

Tragedia di uomini
schiacciati dal
destino …

La madre
I due
La strada

§§
§

Salvezze umane e
dèi in imbarazzo …
L’inconsolabile
II lago
La nube
Le streghe
La vigna
L’isola
In famiglia
II toro
I fuochi
L’ospite
Gli argonauti
\
II ministero II…diluvio Le…Muse
TEMATICA DEI « DIALOGHI CON LEUCÒ » — « Pavese nel mandarmi i “Dialoghi con Leucò” mi scrisse che, fat¬te le dovute proporzioni, con quel libro, aveva voluto tentare le sue “Operette morali” ». Così Davide Lajolo nel suo II Vizio Assurdo (Oscar Mondadori, Milano 1972, pag. 292). « Fin d’allora — continua Lajolo — gli risposi che la sua filosofia era molto più inconsistente di quella del Leopardi, soprattutto più contraddittoria perché egli dimostrava chiaramente di voler capovolgere l’eterna realtà umana che non sta, come sosteneva nei Dialoghi, ne! gusto della morte, ma bensì nel terro¬re di esservi condannata e nell’aspira¬zione all’eternità.

E, concludendo la lette¬ra, insistevo sull’impressione che avevo tratto da quelle lettura, e cioè, che la tristezza degli dèi era più profonda di quella degli uomini proprio perché ad essi, essendo eterni, non era concesso il sui¬cidio ».
Per il risvolto di sopracoperta della prima edizione del volume (ottobre 1947), Pavese stesso scrisse questo testo di presentazione:

… « Cesare Pavese, che molti si ostinano a considerare un testardo narratore rea. lista, specializzato in campagne e perife¬rie americano-piemontesi, ci scopre in questi Dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento. Non c’è scrittore autentico”, il quale non abbia i suoi quarti di lupa, il suo capriccio, la musa nascosta, che a un tratto lo inducono a farsi eremi-ta.

Pavese si è ricordato di quand’era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli uni¬ci libri che legge. Ha smesso per un mo¬mento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazio¬ne, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammi¬rano un po’ straccamente e ci sbadigliano un sorriso. E ne sono nati questi Dialo¬ghi » (C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 1973, Note al testo, pag. 178).

Da questi brani, è possibile compren¬dere come il tema centrale della sua in¬dagine umana sia il problema, ed il dram¬ma, dell’universale comunicazione. Della collocazione dell’individuo nel tutto. Del ruolo umano di fronte all’infinito, all’e¬terno. Del caos e del mito al cospetto del lògos, della chiarezza.
La condizione drammatica dell’uomo, moralmente e socialmente chiamato a rompere l’originaria solitudine, per adempiere ai doveri ed impegni verso i suoi simili, verso la realtà che lo circonda.

Il problema presenta facce diverse: la soli-tudine è sinonimo d’autosufficienza e può garantire la felicità, o è una condizione primigenia, ma innaturale? La vita di re¬lazione è una necessità vitale oltre che un imperativo morale, o una condanna? Una liberazione o una limitazione insoste¬nibile, per l’individuo? Di fronte a questi interrogativi, egli, pur prospettando una soluzione, resta incerto, o lascia incerto il lettore, tra la pessimistica diagnosi di una condizione umana senza scampo e un’ottimistica speranza di riscatto avvenire.

Tra il richiamo suggestivo e nostalgico alla ricerca di sé in una dimensione interiore della realtà e della vita, e l’op¬posto richiamo, nella vita sociale, a una dimensione umana più larga, a un’uma¬nità comune, a quel bagaglio di valori « sovranamente umano » che è di tutti.

Questa problematicità di fondo si uni¬sce, nei « Dialoghi con Leucò », ad una in¬tensa ansia metafisica, ad un senso di inquetitudine religiosa. Qui il poeta deli¬mita e quasi esemplifica la sua personale mitologia, parafrasando e interpretando, nel loro « nocciolo umano », alcuni noti miti classici, per risalire, attraverso una più vasta riflessione, a un principio di mitologia universale, agli assoluti dell’uo¬mo che è privilegio dei poeti intuire ed esprimere, ma di cui nessuno è deposita¬rio perché comune è la sorte degli uomi¬ni. Una ricerca e una definizione, dunque, non solo astratte, ma anche concrete: il tentativo di dare fisionomia culturale al proprio mondo poetico intriso di romanticismo, soddisfacendo una classica aspi¬razione « al buon senso, alla misura, al¬l’intelligenza ».

« Abbiamo in orrore — egli scrive •— tutto ciò che è incomposto, eteroclito, ac¬cidentale e cerchiamo, anche material¬mente di limitarci, di darci una cornice, d’insistere su una conclusa presenza » (G. Grana, Cesare Pavese, sta in: « I Con¬temporanei », Ed. Marzorati, pagg. 1541-1573).

Il « mito » di cui parla Pavese è l’ele¬mento irrazionale, originario e primigenio della coscienza.

Vale la pena di ricordare ancora che in Feria d’Agosto / lo scrittore definisce il mito « una norma, uno schema d’un fatto avvenuto una volta
per tutte »; un luogo un gesto un evento, assoluti e quindi simbolici », che traggono il loro « valore da questa unicità assoluta che li solleva fuori del tempo e li consacra rivelazione ».

« Mitica » è l’esperienza originaria che si acquista solo
nell’infanzia precosciente della vita, come nell’infanzia protostorica della civiltà.

La nostra « mitologia personale » è rac¬chiusa in quell’età in cui per la prima
volta, durante istanti irripetibili — momenti mitici, appunto — le cose si rivelano a noi. Il processo del conoscere dell’età matura, dunque, non è che un ricordare, un riconoscere, uno scorgere per la …
seconda volta con la mediazione della …
memoria; una sorta di tempo ritrovato nel fondo della coscienza, in cui si riassumono « i sìmboli del nostro essere », del nostro individuale destino. « Destino » è appunto, per Pavese, ciò che di mitico, di unico, apparentemente libero, in realtà … «ferreamente prefissato», racchiude una intera esistenza: poiché il passato deter¬mina il presente e tutta la vita d’un uo¬mo.

Così la teorica del mito da « poetica della memoria » si chiarisce e si evolve in una poetica del « selvaggio » e quindi in una « poetica del destino », estesa alla realtà naturale e al complesso dei rap¬porti umani.

La memoria e il vagheggia¬mento dell’infanzia si accordano, infatti, e s’identificano con la scoperta e il va¬gheggiamento del primitivo e del rustico, nella natura e nell’uomo, e con una « con¬templazione atemporale dell’esperienza », fissata dal poeta nei suoi momenti sim¬bolici, in « un ritmo, una cadenza di ri¬torni previsti », che è appunto la caden¬za predeterminata del destino, l’assoluto della vita e della realtà.

Dunque, mito e simbolo sono i raggiunti valori, gli « universali fantastici », gli assoluti della realtà e dell’esperienza interiore: la « grande collina-mammella », « l’albero, la casa, la vite, il sentiero, la sera, il pane, la frutta ecc. », uno « stato di aurorale verginità che mi godo », e la donna, « una che trasforma il sapore remoto del vento in sapore di carne ».

Temi accennati, in « Feria d’Agosto », già con grande finezza, appena intuiti e rivelati con grazia istintiva, con ritmo pacato e amaro di intensa lirica. Ma anche quando sono « immagini primordiali », archetipi ancestrali, sono sempre radicati su una humus culturale e tradizionale, perché « un mito degno di questo nome non può sorgere che sul terreno di tutta la cul¬tura esistente ».

Infatti lo scrittore avver¬te il rischio, non veramente evitato, di « parlare in linguaggio mistico » o este¬tizzante ma tenta di costruire « un com¬plesso discorso e una commista poetica che su di esso si appoggia e si giustifica ».

A parte le ascendenze culturali (non e-scluso il mito leopardiano dell’infanzia), e le illazioni che se ne possono trarre dal punto di vista etico, l’istanza originale è appunto nel tentativo di costruire una realtà significante e permanente, di fis-sarla in forme emblematiche, perenni, di trascenderle attraverso il linguaggio nel-l’espressione.

E non può sfuggire anche un pessimismo radicale, nello sforzo di riassumere i miti personali in motivi di destinazione universale, di acquisire una coscienza della fatalità della sorte umana … di un destino di dolore, di solitudine, di morte: una sorta di religiosità triste e inconsolata, anche quando, nei « Dialo¬ghi con Leucò », sarà registrata in limpi¬da chiarezza di dettato.

Tanto più che il simbolo è già un modo di evasione dalla realtà, di rinuncia all’impegno, o se vo¬gliamo, il patetico tentativo di dare signi¬ficato e valore assoluto alla rinuncia.
Vasco S. Gondola ha compiuto qualche anno fa una interessante ed ampia analisi dei temi centrali di quest’opera pavesia-na (Alla Bottega Anno XIII - M. 4 Luglio-Agosto 1975, pagg. 41-48).

È bene darne qualche cenno. « La bel¬va »: gruppo « inondo titanico — dèi — nequizie divine ». Temi: « sonno divino-sessuale » — « l’uomo schiacciato », le « iniquità divine », la « tristezza umana ».

Uno straniero (dio-viandante) parla con Endimione, che si è nullificato nell’amo¬re impossibile e transumanante per Artemide, la dea rauca e materna, belva, selvaggia (cfr. Concia del ‘Carcere’).

Simbolo del mondo titanico. Accostabile solo nella notte, nel sogno, mai raggiungibile. Signora delle fiere — Madre Mediterra¬nea. Palpita di tratti particolari legati al¬l’ esperienza sentimentale più intima di Pavese (voce rauca, sorriso breve, fare materno — Si ricordi « la donna dalla vo¬ce rauca » nella vita di Pavese).

«La madre»: gruppo « tragedia di uo¬mini schiacciati dal destino » — temi: « infanzia tragica » — « tristezza umana ».

Parla di Atalanta.

… Meleagro, morto perché la madre fece bruciare il tizzone cui era legata la sua vita, soffre non tanto per la sua morte, quanto per il fatto che i suoi giorni siano stati in pugno alla madre. « Quando nacqui il mio destino era già chiuso nel tizzone che la madre ru¬bò ».

« La passione che ci finisce — gli dice Ermete — è ancora quella della ma¬dre ».

Risultano evidenti riferimenti al mon¬do degli affetti di Pavese, alle difficoltà dei suoi rapporti familiari, al suo misoginismo, che è anche rifiuto della madre, origine di quella vita tormentosa pure rifiutata.

« Schiuma d’onda »: gruppo « mondo titanico — dèi — nequizie divine ».

Temi: « sesso tragico », « nequizie divine », « tri¬stezza umana ». Saffo, dopo aver cercato la fuga dalle cose nella poesia (« la mia fuga era guardare nelle cose e nel tu¬multo, e farne un canto, una parola »), si è accorta che « il destino è ben altro », ed ha cercato di sfuggire al destino con la morte nel mare. Ma lì tutto è inquietudine e noia. La sua figura è contrapposta a quella di Elena, donna idolo, sempre uguale a se stessa, senza sorriso, apportatrice di morte, e di Venere, « la inquieta angoscia che sorride da sola » e che « non soffre » perché « è una gran dea ».

Nel dialogo « Le Muse », gruppo « dèi buoni », il tema centrale è « l’uomo divino », la « poetica ». Esiodo esprime alla Musa Mnemosine il proprio fastidio per le cose. Solo nel ricordo gli pare di es¬sere stato contento. Nella vita dell’uomo — gli fa riconoscere la dea — ci sono attimi di felicità. La vita degli dèi è fatta tutta di questi attimi, e noi aspiriamo a questa vita, che è il modello della nostra. Compito di Esiodo, e quindi di ogni poeta, sarà quello di rivelare agli uomini que¬sta verità che è venuto a conoscere.

Questo della poesia, intesa come conoscenza ì rivelazione, è un altro tema tipicamente pavesiano.

« La Chimera »: gruppo « mondo titanico e nequizie divine ». Tema: la « sconfitta », le … iniquità divine …

Bellerofonte, vissuto nel mondo dei mostri,’lui che « giusto e pietoso » aveva ucciso la Chimera, lui che « ha veduto gli dèi, come noi ci parliamo», non sa «rassegnar¬si a morire ». A cavallo delle due età — mito, violenza, irrazionaie-legge - ragione - obbedienza - impersona, nel suo vivere con accorato affanno la prima senza sapersi adattare alla seconda, il contra¬sto tra bisogno della maturità e permanicnza nell’adolescenza, antinomìa che egli non risolverà mai se non con la morte, e che anche qui sfocia nella morte, come ascia intendere la conclusione del dialo¬go: « E perché non si uccide lui che sa queste cose? » — chiede Ippòloco. « Nes¬suno si uccide. La morte è destino. Non sì può che augurarsela, Ippòloco » — Ri¬sponde Sarpedonte.

« L’inconsolabile »: rientra in « salvezze umane e dèi in imbarazzo’’. Tema:
« ribellione del sesso » — « ribellione con¬fortevole ».

In esso Orfeo spiega perché, disceso nell’Ade, non ha voluto far rivivere Euridice, pur avendone la possibilità. « Vale¬va la pena di rivivere ancora? (…) Allora dissi: « sia finito » e mi voltai.

Euridice scomparve come si spegne una candela ».
Orfeo negli Inferi non cercava l’amore di Euridice, ma se stesso, il proprio de¬stino. Là comprende, attraverso la sua poesia, che « i morti non sono più nulla »
È chiara l’identificazione di Orfeo con Pavese stesso che, giunto a conoscere con l’arte e la poesia lo sfacelo del proprio destino, rifiutò di rimanere qui, dove « crediamo all’amore, e alla morte e pian¬giamo e ridiamo con tutti », e, spinto da una profonda esigenza non solo esisten¬ziale, ma anche morale e metafisica, pre¬ferì troncare subito la propria vita senza significato con la morte volontaria.

« Gli uomini »: parla di Zeus, che scen¬de a scapricciarsi tra gli esseri umani, e a Cratos, che considera questo una cosa assurda, in quanto gli uomini sono « più miserabili dei vermi », Bia spiega che ciò avviene perché il mondo « se pure non è più divino, proprio per questo è sempre nuovo e sempre ricco per chi ci discen¬de dal monte … la parola dell’uomo, che sa di patire e si afferma e possiede la ter¬ra, rivela per chi l’ascolta meraviglie ».

Per questo « gli dè4 giovani … tutti cam¬minano la terra tra gli uomini … soltanto vivendo con loro e per loro si gusta il sa-pore del mondo », si può conoscere « il frutto più ricco della vita mortale: la donna ».
Il dialogo è l’affermazione d’un credo pavesiano nella vita, in quella vita che, pur dolorosa ed incerta, ha una pregnanza, un fascino, concentrati nel suo frutto più sapido, la donna, che al suo paragone nulla vale l’amorfa e immobile vita degli dèi.

Bibliografia:
1) G. Manacorda, Storia della letteratura italiana contemporanea, Roma 1967.
2) JF. Flora, Storia della letteratura italiana, voi. V, pagg. 756-757, Mondadori, Milano
3) G. B. Maschio, Panorama letterario del ‘900, pagg. ÌQO-114, Paravia, Torino 1974.
4) V. S. Gondola, Pavese nei Dialoghi con Leucò, sta in Alla Bottega n. 4 anno 1975
pagg. 41-48.
5) D. Lajolo, II vizio assurdo, Mondadori. Milano 1972.
6) Vita di C. Pavese attraverso le lettere, Einaudi, a c.Lorenzo Mondo, Torino 1974.

§§§
§§
§


§
§§ §